L’articolo 18 spiegato alla politica


Si è parlato tanto in questi giorni di articolo 18, e soprattutto di “modernizzare” il paese e della eliminazione di alcune norme per creare sviluppo e occupazione. Il mood politico sottostante era la necessità di una delega e di un governo “finalmente forte” e stabile capace di fare riforme impopolari; un mood che sottintendeva in caso di stallo anche il ricorso alle urne, nella speranza – per qualcuno sottintesa certezza – di nuovi rapporti di forza interni capaci di velocizzare queste riforme.

Lo statuto dei lavoratori, la legge 300 del 1970, nasce in anni difficili, in cui le legislature duravano anche meno di un anno, in cui le maggioranze erano decisamente eterogenee, e spesso appese al filo di governi di pochi mesi. Se oggi la congiuntura economica è complessa, a leggere i dati in quegli anni era forse anche peggio: un’economia più debole, con una moneta debole, in balia di mercati fortemente frammentati e speculativi, sopratutto per un paese legato alla volatilità dei prezzi delle materie prime e delle fonti energetiche.

Il 1970 veniva dopo le lotte sociali del triennio precedente a livello europeo ed eravamo negli anni di piombo. Non fu il PCI a proporlo, e nemmeno formalmente a votarlo, ma il pentapartito. L’esigenza era dare “un ordine” di principi base che togliesse forza propulsiva alle spinte extrasindacali, e togliesse armi di propaganda a chi proponeva spinte “armate rivoluzionarie”. Erano anni in cui chi faceva un sindacalismo duro ma intransigente verso gli estremismi, come Guido Rossa, veniva ucciso dalle BR.

In questo contesto l’articolo 18 era un argine forte a qualsiasi “ritorsione” dei “padroni” – in realtà i capiturno e direttori del personale – verso gli operai (generalmente) maggiormente impegnati nel sindacalismo e nelle lotte. Non si poteva “licenziare per ragioni politiche o sindacali”. Questo il senso del reintegro, tra le misure a disposizione del giudice del lavoro.

Negli anni questa norma è quella di maggiore civiltà, ripresa anche dalla normativa europea, che non cancella alcuna giusta causa di licenziamento, come improduttività, assenteismo, furto, danni all’azienda, false certificazioni mediche e personali, e nemmeno limita cause generali di ridimensionamento del personale causa crisi economica, mancanza di lavoro, ordini e commesse, bilanciando con passaggi per varie forme di ammortizzatori sociali e contratti di solidarietà.

E tuttavia questa è la norma che impedisce che io possa licenziare un omosessuale in quanto tale, una donna perché incinta, un dipendente per il solo fatto che a cinquantanni mi costa più di un neoassunto con contratti meno vincolanti, un operaio perché denuncia carenze nella sicurezza sul lavoro, o un operaio iscritto ad un certo sindacato. Se pensiamo che siano ragioni inverosimili, basti pensare che due anni fa la Fiat di Pomigliamo e Melfi ha licenziato dei sindacalisti perché iscritti alla Fiom.

Dinanzi alla condanna al reintegro, è uscita da Confindustria disconoscendo il contratto collettivo nazionale e rinegoziando molte clausole, e dichiarando apertamente di non volere operai di un certo sindacato: ovvero una scelta basata solo sulle idee politiche e sindacali.

Condannata al reintegro, li ha lasciati a casa “vi paghiamo lo stipendio ma in fabbrica non vi vogliamo”. E ancora oggi la maggior parte degli operai FIAT non rientrati a lavoro dopo la cassa integrazione sono quelli iscritti ala Fiom.
Ecco a cosa serve ciò che resta dell’articolo 18.

A chi dice che è una norma vecchia, io vorrei ricordare che si tratta di una norma di principio, e i principi non hanno età. Che anche se oggi la cancelli dal diritto italiano, è una norma di diritto europeo. A chi vuole ricondurre la sua eliminazione a ragioni di crescita e sviluppo, mi permetto di ricordare che su poche cose gli economisti sono concordi, tra queste che eliminare l’articolo 18 non porta occupazione o crescita.

L’unico effetto certo della eliminazione del reintegro tra le opzioni in caso di licenziamento senza giusta causa è la facilitazione della delocalizzazione: se in Polonia o in Cina la manodopera costa meno, licenzio tutti qui e sposto la mia azienda. Questo l’effetto certo. E nessun economista può negarlo. Effetto derivato e molto probabile è il cd. “ricatto occupazionale”: se non mi dai questo contributo o facilitazione licenzio, delocalizzo, cambio regione, paese. O peggio, se non aumenti la produttività e accetti un salario minore licenzio.

Tutto questo non ha nulla a che fare con il numero di cause, perché la sola esistenza di questa norma fa si che le questioni che riguardano l’articolo 18 sono appena 6000, e moltissime vengono decise in fase stragiudiziale. Spesso con il reintegro, altre volte con un indennizzo, anche senza condanna.
Semmai, questa norma, in un paese che ha un’economia fondata non sulla grande industria ma sulle piccole e medie imprese, andrebbe estesa a tutti. E la vergogna sociale è che gli unici, ed in questo Renzi ha ragione, che non la prevedono siano proprio i sindacati, in quanto associazioni.

E tuttavia quello che non si capisce del dibattito di questi giorni è cosa c’entri eliminare l’articolo 18 con l’eliminazione di contratti precari e precarizzanti che non servono più. Perché si debba eliminare questo articolo per eliminare i cocopro, ad esempio. Non c’è nesso. Così come non esiste nesso tra il dare la maternità o la malattia a chi ha un contratto “precario” con l’eliminazione del reintegro in caso di ingiustificato licenziamento.

Ma c’è un effetto economico ben più grave che si sta sottovalutando, e che è bene qualcuno dica con chiarezza, perché la frattura economica e sociale sarebbe drammatica e poco rimediabile. Ed è materia delicata e da maneggiare con cura, visto che parliamo della struttura sociale del paese.

Il nostro sistema bancario, del credito, si regge essenzialmente sullo strumento del mutuo immobiliare e del credito al consumo. Garanzia formale per queste erogazioni è nel 90% dei casi una busta paga e un contratto a tempo indeterminato. Quando basta.

Se si elimina l’articolo 18, questa garanzia documentale in sé viene meno, perché anche un contratto a tempo indeterminato, dal punto di vista dell’istituto di credito, in sé ha meno valore in termini di garanzia. L’effetto psicologico di chi domani potrebbe essere messo di fronte alla scelta di andare a casa oppure lavorare di più guadagnando meno sarebbe devastante sui consumi, ed anche sui risparmi, precarizzando di fatto tutta l’economia, e la vita di milioni di persone che sino ad oggi sapevano che se lavoravano e producevano, in condizioni normali di mercato, nessuno li avrebbe potuti licenziare. Lo sapevano loro, i loro creditori e le banche.

Su tutto questo non si può “tentare”, non si può “sperimentare”, non si può “provare”. Men che meno con una moneta sovranazionale, in un’economia comunitaria, ed in un mondo economico e finanziario globale. In cui una tutto sommato moderata bolla speculativa in America ha devastato vent’anni di pil mondiale in sei mesi.

La politica può essere quella cosa che amministra processi decisi altrove. Può essere quella cosa che legge il presente e lo interpreta e disegna. E può essere quella cosa complessa di intuire dove stiamo andando, ponderarlo, e rendere possibile il migliore futuro auspicabile.

La differenza tra queste tre dimensioni della politica sta alla qualità degli uomini, al rispondere a esigenze e richieste imminenti, semmai di qualcuno, o nell’avere cura coscienza, e di comprendere che non tutto quello che fai con decreto lo puoi anche cancellare con un altro decreto e tornare indietro come se nulla fosse stato.

Eliminare le cose che non vanno, non passa necessariamente dal cancellare quelle che funzionano e danno diritti e garanzie. Lo dico oggi a Renzi, e al partito democratico, e lo dico alla mia generazione di quarantenni. Una generazione cui non compete più costruire il proprio presente, ma quello dei nostri figli. E semmai mettere tutti nelle condizioni di poterne avere di figli, serenamente.

fonte: http://micheledisalvo.com/2014/09/l-articolo-18-spiegato-alla-politica.html

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