Le Italie del debito pubblico dal 1922 a oggi


Ho notato che spesso il Corriere della Sera menziona il «debito pubblico» italiano. Si parla di una cifra enorme, 1.500 miliardi di euro. Mi potrebbe spiegare l’ origine di quel debito, di chi sono quei soldi e in che modo i prossimi governi potranno ridurlo? Qualche anno fa lessi sul Corriere della Sera che anche alla fine della Prima guerra mondiale l’ Italia si trovò con un ingente «debito pubblico» e che Mussolini trovò un espediente per ridurlo o addirittura annullarlo: come ci riuscì? Maria Bonatti Rovereto (Tn) Cara signora, il nostro debito pubblico cominciò a crescere negli anni Ottanta e fu il risultato di una politica sociale e di spese clientelari che il Paese non poteva permettersi. Per più di dieci anni abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi e abbiamo finanziato il debito emettendo buoni del Tesoro che sono finiti in massima parte nelle mani dei risparmiatori italiani. Beninteso, per invogliarli a comperare la carta di uno Stato indebitato e traballante, fu necessario garantire interessi molto più elevati di quelli che gli altri Stati europei pagavano per le loro emissioni, e soprattutto svalutare periodicamente la lira. Mi capita d’ incontrare, ogni tanto, qualcuno che ancora rimpiange quegli anni e addebita all’ euro la colpa dei nostri guai. Mi chiedo se si renda conto del male che quel diabolico ingranaggio ha fatto alla reputazione dell’ Italia nel mondo finanziario. Oggi la situazione è migliorata. Ma l’ avanzo primario, vale a dire quella parte del gettito che rimane nelle tasche dello Stato quando ha finito di pagare gli interessi ai creditori e che serve a riscattare il debito, è andato progressivamente diminuendo. E’ questa la ragione per cui il nostro debito pubblico continua a rappresentare, grosso modo, il 110 per cento del prodotto interno lordo. Alla fine della Grande guerra il debito era costituito da tre grandi fattori: le enormi spese che il Paese aveva dovuto sostenere per le necessità del conflitto, la politica troppo generosa delle amministrazioni locali socialiste e cattoliche, la crescita incontrollata dell’ occupazione in alcune grandi amministrazioni pubbliche (soprattutto le Poste e le Ferrovie) dove sindacati e partiti avevano generosamente collocato i loro seguaci. All’ epoca del governo Giolitti (1920-1921), il ministro del Tesoro Filippo Meda cominciò il risanamento dei conti pubblici riducendo drasticamente i finanziamenti dello Stato alle amministrazioni comunali e provinciali. Ma queste si rivalsero aumentando la tassazione locale delle proprietà e dei consumi: provvedimenti, sia detto per inciso, che provocarono l’ indignazione dei contribuenti tartassati e favorirono l’ ascesa del movimento fascista, soprattutto nella valle Padana. Quando Mussolini prese il potere nell’ ottobre del 1922, la situazione, secondo alcuni storici economici, stava lentamente migliorando. Ma la vera svolta si ebbe allorché il ministro delle Finanze e del Tesoro Alberto De Stefani, rafforzato dai poteri che la Camera aveva concesso al nuovo governo, mise mano alla scure e riuscì là dove i governi precedenti avevano fallito. La sua riforma fiscale abolì parecchie esenzioni e favorì i redditi più elevati, ma introdusse una imposta progressiva sul reddito personale e incoraggiò gli investimenti stranieri. Per riformare le Ferrovie e le Poste, De Stefani fu ancora più energico. Fra l’ ottobre del 1922 e l’ aprile del 1924, soppresse 65.274 impieghi statali, di cui 45.566 nelle Ferrovie e 8601 alle Poste. Nello stesso periodo i conti delle Ferrovie passarono da un deficit di 1.431 miliardi a un profitto di 176 milioni. È giusto ricordare che quelle riforme furono fatte soprattutto a spese dei militanti dei partiti di opposizione e servirono a rafforzare il fascismo nella sua prima fase. Ma gli economisti riconoscono generalmente ad Alberto De Stefani il merito di avere messo ordine nei conti dello Stato e di avere permesso al Paese di attingere con maggiore credibilità al mercato dei capitali internazionali.

– Romano Sergio

mussolini

fonte: http://archiviostorico.corriere.it/2005/settembre/25/Italie_del_debito_pubblico_dal_co_9_050925133.shtml

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